Resoconto viaggio Etiopia 2014

L’Etiopia è una terra tra le più povere d’Africa e tra le più belle

Giorno 16.07.2014
Atterraggio ad Addis Ababa di primo mattino. Il cielo, che a 11 mila piedi era illuminato da un sole splendente, diventa improvvisamente grigio e piovoso a terra. E’ la stagione delle piogge che andrà esaurendosi con il passare delle settimane e durerà fino a settembre. Luglio è il mese più freddo, le scuole chiudono, perché sarebbe difficile per molti bambini, raggiungere, quasi sempre a piedi, le loro scuole. Diversamente da molti altri Paesi d’Africa, le scuole elementari sono statali e gratuite.

Padre Pacifico Cetoretta, un frate francescano marchigiano, da 41 anni in Etiopia, ci attende fuori dall’aeroporto per portarci nel sud del Paese, dove siamo stati chiamati per valutare un intervento di Gsi Italia in ambito sanitario, con la riabilitazione strutturale di una serie di edifici lasciati inutilizzati da una azienda italiana che ha operato per alcuni anni in quell’area e che ora è impegnata nella costruzione di una grande diga sul fiume Homo, nel sud del Paese, non distante da Gasa Chari. Uscire dalla città si dimostra una impresa difficile. Per percorrere i pochi chilometri abbiamo bisogno di districarci in un traffico caotico per oltre un’ora, prima di immetterci sulla strada che va a sud, verso la nostra meta, Chidda, nella Zona del Dawro Konta. Sulla strada asfaltata percorriamo circa 300 chilometri prima di arrivare a Soddo, nostra prima tappa di avvicinamento sulla meta, e ci vorrà una intera giornata. Lungo la via si susseguono villaggi, distese di capannucce di fango rotonde, secondo l’iconografia nota delle capanne africane, talvolta a cubo, prodotte entrambe da un’intelaiatura in rami di legno e di fango. Le strade sono state costruite per lo più dalla italiana Salini-Impregilo e negli ultimi anni da una compagnia cinese. Lungo di esse notiamo una folla di persone brulicanti, vocianti e in marcia da e verso abitazioni disperse in un territorio vasto talvolta brullo e poi verde e rigoglioso di banani, sicomori, palme e tamarici. Fa freddo. L’altezza media è di 2000 metri con punte occasionali di 2800 e anche 3000. A queste altezze i banani diventano falsi, cioè sterili di frutti e la natura disegnata dalle mani sapienti dei coltivatori, presenta terrazzamenti regolari e fantasiosi, con campi minuscoli zappati a mano, che ricordano vagamente i terrazzamenti orientali coltivati a riso dell’Indocina.

Ho ritrovato nelle mani di questi coltivatori una forma di aratro in uso nella agricoltura delle nostre passate generazioni, l’aratro costituito da un ramo con un rostro centrale. Parimenti ho visto in uso un’ascia che conoscevo solo nelle vetrine dei musei archeologici europei, un ramo ricurvo della lunghezza di circa 50 cm, ricurvo all’apice con un angolo di 45 gradi e una lunghezza di circa 20 cm e con inserito una lama grezza, tenuta in posizione con stringhe non diversamente da come gli uomini primitivi inserivano schegge di ossidiana o più frequentemente di selce. Sono solo le donne e i giovani a portare i carichi su schiene ricurve, spesso con figli avvolti in ampi foulards addossati al petto. Accanto osservo uomini, giovani o avanti negli anni, percorrere la stessa strada con le mani in tasca.

I ruoli di genere sono chiari, così come per altro in altre parti dell’Africa, e la scelta di GSI Italia di privilegiare l’aiuto alle donne trova in Etiopia conferma, ove ce ne fosse stata necessità di conferma.

La pioggia, nell’ultima parte del viaggio diventa battente. La folla prosegue il suo cammino incurante. L’ombrello più usato e a disposizione immediata sono le foglie di banano, sotto le quali si ricoverano anche tre persone. Arriviamo a Soddo che è notte fatta, anche se sono solo le sette e in Italia avremmo ancora due ore di luce. A cena, nel convento dei francescani dei quali siamo ospiti, incontriamo due giovani italiani, in Etiopia da qualche mese e solo da due giorni a Soddo. Sono qui come volontari all’interno del Servizio Civile, per studiare e monitorare soprattutto le risorse idriche e raccogliere informazioni sulle buone pratiche di microcredito sviluppate nel Paese, in previsione di futuri impegni nel settore da parte del non governativo italiano.

Giorno 17. 07.2014
Ripartiamo per Gassa Chare, la nostra tappa finale, altri 160 chilometri, che sommati a quelli del giorno prima portano a 500 km. In questo tratto la strada è di terra battuta, una pista da percorrere con prudenza per le buche che obbligano l’auto conducente a decelerazioni e a slalom, tra buche e animali. Gli animali sono nei fatti i veri attori della strada, le capre, gli asinelli, piccoli e carichi, animali da cortile e qualche cane. Non troppi i cani. Evitarli tutti è un’impresa che può mettere a rischio talvolta l’incolumità del mezzo e dei passeggeri. La natura è rigogliosa e in questa stagione verde e colorata. Le stelle di natale gareggiano in altezza con i banani e le acacie esibiscono pennacchi gialli, irti all’insù al massimo della fioritura.

Riscopro, passando nei villaggi, bambini che giocano con palle di stracci tenuti insieme da un laccio e ruote di bicicletta senza copertone, guidati virtuosamente con un bastoncino, da bambini che non hanno mai visto una playstation ma che mostrano di divertirsi un mondo.

Sara, una ragazza di poco più di 20 anni, ci accompagna nella prima parte del viaggio. Pacifico mi confida di averla salvata dal suicidio dopo che era stata violentata a 15 anni. Una vita segnata irrimediabilmente dalla violenza, costato un figlio e la ripulsa della ragazza a ogni contatto con gli uomini. La piaga dell’abuso sessuale è molto diffusa e la prolificità di questo popolo deve parte significativa della sua consistenza alla facilità di gravidanze “non programmate”. Nel salutarsi uomini e donne si stringono la mano e avanzano il tronco fino a urtare la spalla destra l’uno dell’altra per due e tre volte. Le donne più anziane si salutano talvolta strofinando reciprocamente il naso, due e tre volte.

Giorno 18.07.2014
Incontro di lavoro con due delle tre cliniche individuate come passibili di intervento di sostegno e sviluppo. Diverse le congregazioni di riferimento dell’una e dell’altra ma in qualche modo tutte legate al mondo francescano e nello specifico a Padre Renzo, accompagnatore del giro ed elemento di raccordo. La prima clinica è quella di Gasa Chare, diretta da suor Aster Matewos, della congregazione della Divina Provvidenza, con sede a Vicenza. Una suora infermiera diplomata e caposala, responsabile della struttura nei confronti dello Stato. Ancora in formazione ma in grado di reggere il carico di un lavoro che sostituisce il sistema sanitario nazionale che ha costruito nel villaggio un ospedale ma non ancora in funzione, per cui i malati continuano a ricorrere alla clinica della missione.

Malaria, infezioni, medicina perinatale, infezioni oculari e soprattutto, non ci si crederebbe, ustioni.

Il fuoco è nelle capanne il centro della casa e della vita familiare, nel sue funzioni di utilità ma anche nei rischi accidentali che risultano essere così frequenti e gravi. La clinica cura le ustioni fino alla fase di trapianto cutaneo che viene assicurato dall’ospedale di Soddo, di proprietà sempre della missione. Il dispensario farmaceutico è ordinato, pulito e ben fornito di antibiotici, antinfiammatori, antiemorragici e vitaminici. Nel pomeriggio capito in clinica per discutere alcuni aspetti organizzativi con Aster e gli infermieri. Nella sala di attesa trovo un uomo e una donna con un fagotto di pezza, legato a tracolla con una cordicella. Aster aiuta a slegare il fardello e dentro troviamo un piccolo neonato, adagiato a modo di culla su di una costa di agave tagliata a misura. La madre lo ha dato alla luce in casa qualche giorno fa morendo dopo due giorni di emorragia.

La morte perinatale di mamme partorienti in casa è una tragica consuetudine che colpisce una madre su 10-15 partorienti. La scelta di partorire in casa non ha ragioni sociali e culturali ma solo ragioni economiche e logistiche.

I due nonni, immagino, che hanno portato il neonato, erano arrivati a Gasa Chari da oltre 20 chilometri. A piedi. La ragione era solo una: nella foresta e nella montagna è risaputo che alla clinica della missione “danno il latte” che fa vivere. Un biberon e una busta di latte italiano arrivato qui grazie alla solidarietà di amici di Brescia, insieme a vestiti per neonati, nascosto in piccoli pacchi affidati alle poste italiane e poi a quelle etiopi. Il governo ostacola questa importazione e allora bisogna industriarsi con sotterfugi, fondamentali in occasioni come queste. A Osanna, a 40 chilometri circa da Dubbo, il padre francescano Abbe Assefà, segretario della Custodia dei Frati cappuccini di Etiopia, mi anticipa il progetto di costruire e mettere in opera un ospedale che faccia fronte a una richiesta sanitaria insoddisfatta dal locale dispensario statale. Mi invierà in Italia il concept note, al quale seguirà nel caso una missione di valutazione ad hoc con un tecnico della progettazione. Non sarà prima del 2015.

Giorno 19.07.2014
Partenza per Addis Ababa, occorre fare 500 km. La giornata è fresca e ogni qualche centinaio di chilometri troveremo la pioggia, le acacie ombrellifere etiopiche costellano l’orizzonte insieme ai moringa, le cui foglie vengono utilizzate dalla gente del luogo in maniera non dissimile da come in America latina usano la coca, masticandola per ore e accumulandola all’interno della guancia, creando dei curiosi bubboni all’esterno. L’effetto, a seconda della quantità, è stimolante e defatigante, fino all’effetto allucinogeno. Lungo strada ci fermiamo all’ospedale di Dubbo, una struttura di bella architettura, con aiuole fiorite e curate. Di buon livello i servizi sanitari e la qualità del personale. Un incontro con lo staff medico di circa un’ora permette di fare il punto sullo stato dell’arte: ogni anno producono e stampano un report complessivo e particolareggiato dei risultati, che mi illustrano e consegnano nella edizione 2013. Raccolgo istanze e attese. I bisogni riferiti: la formazione continua del personale, la specializzazione in itinere del gruppo medico, l’ampliamento di alcuni nuovi reparti e l’ampliamento dei posti letto. Il chirurgo mi dice che opera con attrezzi di dieci anni fa, conoscono solo nel termine la fisioterapia ma desidererebbero molto impegnarsi in questo settore. L’odontoiatria è ferma da anni per la rottura del gruppo. In complesso mi pare che la struttura funzioni bene ma potrebbe funzionare meglio. Ho chiesto allo staff tecnico dell’ospedale una relazione puntuale entro la prima metà di settembre, per tutti gli ambiti e i livelli, incluso quello amministrativo, il portafoglio dei donatori e un previsionale di spesa legato ad un cronogramma che si misuri sui tre anni.

Assicuro l’impegno della associazione ad una candidatura progettuale minore su donatore europeo, per la quale chiedo loro di misurarsi su una proposta che non superi i 30 mila euro. Lavoreremo sulla progettazione maggiore, intorno ai 250 mila euro, appena conclusa questa prima fase, con scadenza ottobre.

Sulla fisioterapia assicuro l’impegno per un invio di formatori dall’Italia, non appena chiarite e programmate le priorità, comunque entro 6-8 mesi. Richiesta dello stesso tipo mi è venuta nei giorni scorsi da Aster e dalle cliniche della regione del Dawro. Suggerisco loro di prendere in considerazione l’organizzazione di una settimana medica di formazione in uno degli ospedali di proprietà della missione o anche nella capitale, per sessioni tematiche anche sovrapposte, in modo da concentrare lo spazio temporale con lo spazio di apprendimento. Chiedo di farmi sapere al più presto. Dicembre-febbraio potrebbero essere i mesi utili e sufficienti per preparare la cosa.
Arriviamo a Addis Ababa verso le 20,30. Il più della missione è fatto. Domani giorno di svago: al museo ci aspetta Lucy, l’ominide di 3 milioni di anni, appena rientrata dagli Usa, vissuta in questa culla etiope dalla quale provieni.

Giorno 21.07.2014 Kinshasa ci attende.

Il giorno 22 è invece stabilito l’incontro con Chero, l’associazione nostra partner, che accoglie e cura i bambini di strada ed ex bambini soldato. Con noi sarà anche il responsabile congolese della Fondazione svizzera Limmat, con la quale c’è un accordo preliminare di finanziare la prosecuzione del nostro intervento a Kinshasa ex post questo primo anno, per il quale abbiamo disposto un investimento di 20 mila euro iniziali fino a dicembre 2014, in attesa di ulteriori investimenti a verifica di risultati raggiunti.

 

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