MISSIONE NELLA TERRA DEI MORI

Nouakchott, capitale di uno stato di sabbia, la Mauritania, grande due volte la Francia, è una città senza volto. Un agglomerato di cubi, sparsi disordinatamente in uno spazio totalmente piatto.

C’è un modo per capire il grado di miseria di una regione, è la presenza più o meno massiccia dell’accattonaggio. Impressionante a Ouagadougou, in Burkina e ancora a Bamakò, in Malì, qui a Nouakchott l’assillo della questua si fa più discreto. E’ il segno di una certa capacità d’acquisto ma anche del fatto che qui siamo in pieno Islam radicale.

L’Islam detta la prescrizione della carità al misero e il dettame religioso risponde a bisogni sociali che suggerirono al Profeta la norma, il cui adempimento ancora oggi assicura il paradiso in premio al benefattore e la sopravvivenza quotidiana al misero beneficiato.

Se il deserto in questo paese è il tutto e il nomadismo è la condizione di vita delle sue popolazioni, la capitale ne rappresenta solo un aspetto stanziale, poco convinto a guardare dall’alto dell’aereo in fase di atterraggio. Tende accanto a casupole con il tetto di lamiera, rari edifici, con poche strade asfaltate ed interrate dal vento del deserto e un oceano inospitale, deserto d’acqua a pariglia di quello contiguo di sabbia.  I detriti della inciviltà dei consumi qui a Nouakchott lastricano gli spazi dell’agglomerato urbano coprendo letteralmente tutto. Case, strade, auto, sono immerse nella sabbia, che qui è grigia, e nei rifiuti, che qui come in quasi tutte le città africane si stratificano sul suolo perché è assente ogni sistema di raccolta e smaltimento.

Colpisce, allo sbarco sulla pista di atterraggio, il caldo, una cappa che non concede riparo. La vegetazione è totalmente assente e il mare non mitiga la “chaleur” neppure sulla spiaggia. Il mare è oceano e ha i difetti dell’oceano, sempre tormentato e agitato, buono solo da guardare, pauroso. Le vongole e gli altri mitili, grossi come mani di bimbo, coprono di bianco tutto lo spazio della battigia e s’allungano in lingue bianche a lastricare molte vie della città.

(……)

Sono tornato in città questa mattina da Tenadì, direttamente dall’accampamento sulle dune tra le quali abbiamo passato la notte. Ieri, lasciando Nouakchott, eravamo entrati per qualche decina di km nel nulla di sabbia, percorrendo la pista a tratti illeggibile, per raggiungere la mandria dei cammelli del mio ospite, Sidì El Moctar. La suggestione del crepuscolo, la temperatura piacevolmente mite, la luna finalmente nuda nel cielo e le stelle, profonde nel buio e il fuoco acceso dei ragazzi nomadi al nostro arrivo, hanno fatto sì che decidessimo di fermarci a dormire sulla sabbia.

Spontanea la suggestione del testo sacro: “è piacevole fermarsi qui, alzeremo le tende, una per te, una per Mosè e una per Elia..”. E così è stato. Il nomade sa organizzarsi. Sono state stese le grandi stuoie di paglia intrecciata e le coperte tessute di lana, una per me e una per il patriarca El Moctar e le sue ancelle.

Sara, la figlia di El Moctar è una ragazza di poco più di vent’anni, porta con sé il figlio di due anni, madre e figlio accuditi da due ancelle. La ragazza, graziosa, di pelle chiara come il padre a differenza delle ancelle di pelle scura, è venuta con noi per accudirci, padre e ospite. Parla correttamente il francese, viaggia per l’Europa, ma per il resto è una donna mauritana ossequiosa ai ruoli sociali codificati dalla tradizione millenaria nomade e islamica. Serva dell’uomo, padre prima e marito successivamente, Sara a vent’anni è già stata sposata e ripudiata. E’ tutto nella norma e nella consuetudine delle cose.

Il padre decide ancora, senza alcuna possibilità di deroghe, il marito per la figlia. Qui il matrimonio è solo un contratto sociale ed economico. E’ così che qualcuno ha comprato, probabilmente a caro prezzo, con armenti e greggi, la parentela di Sidì El Moctar, per conquistare o mantenere un rango. O forse sarà stato il contrario. Sara ha sposato un uomo che ha conosciuto il giorno del suo matrimonio, il quale ha consumato quanto aveva comprato, restituendola al padre. Il ripudio qui non è una tragedia. El Moctar stesso, il patriarca, ha ripudiato la prima moglie e ora vive con la seconda. Non c’è bisogno di motivi, di spiegazioni e di cause di annullamento.

Tutto è ancora come ai tempi dei padri antichi, la donna è, e sa d’esserlo senza lagnarsene, una cosa di proprietà, come la cammella e l’asina. Se qualcosa induce l’uomo a cambiare la cammella, è normale che esso cambi cammella e la cammella troverà un altro padrone. Questo è quanto, nudo e crudo, difficile da accettare per un occidentale ma tant’è.

La consuetudine nomade di Abramo, di Giacobbe, di Israele, si disvela nitida e immutata davanti ai miei occhi, e mi parla e si racconta con naturalezza alla luce del fuoco. Ancora intatti i volti e i nomi di un tempo di Sara e di Sidì, di Abraham, il figlio, l’affaccendarsi muto delle ancelle, mai sentita in quattro giorni di permanenza a Tenadì, l’oasi della tribù dei Taogunants di cui Sidì El Moctar è il principe, la loro voce. Tutto è cristallizzato, perfetto, intatto, senza alcun segno di frattura con il riferimento ai contesti descritti nel testo sacro della Bibbia.

E’ veramente straordinario.

L’atmosfera riposata intorno al fuoco, in attesa del montone appena ucciso messo a cuocere nel caldaio, la cordialità dell’ospite nei miei confronti, favoriscono la mia tentazione di giocare con il patriarca, forzando volutamente la situazione creata dalla circostanza conviviale sulle dune ancora calde del deserto mauritano. Voglio scoprire fino a che punto siano intatte le regole di comportamento sociale e abuso del privilegio concessomi dalla mia natura di ospite.

El Mostar mi chiede se preferisco passare la notte sulle dune o all’accampamento nell’oasi di Tenadì. Come è naturale e per compiacere El Moctar, declino ogni diritto decisionale affidandomi alla sua valutazione e alla sua scelta. E’ un gioco questo del reciproco rimando decisionale che si ripete dall’inizio del nostro incontro e continuerà fino alla mia partenza.

Il principe insiste perché sia io a decidere se restare o tornare a Tenadì e così, sicuro di spiazzarlo, ma convinto anche di non irretirlo, accetto il suo invito, ma delego Sara a prendere la decisione per noi.

Lo sconcerto del padre e della figlia è evidente, entrambi sgranano gli occhi e dopo qualche istante in cui si guardano interlocutori e sorpresi, scoppiano in una risata fragorosa. Così facendo, sicuro dell’immunità, col padre ho rotto sfacciatamente un protocollo inviolabile e alla figlia ho posto due problemi: accettare di prendere una decisione vincolante per il padre, cosa che culturalmente non è preparata a fare, e, per seconda intenzione, cogliere il senso di un mio omaggio, da uomo dell’occidente, di rispetto a lei e soprattutto alla donna nomade che è.

Sara si schernisce guardando il padre e me alternativamente, senza decidere se stare al gioco o schernirsi fino in fondo come ci si aspetterebbe da una giovane donna costumata.

L’intimità che ho stabilito col padre in questi giorni, il senso di stima e di rispetto verso la mia persona o forse solo verso il mio ruolo di possibile finanziatore del progetto per il quale mi ha invitato a Tenadì, quello del contrasto alla desertificazione dell’oasi, mi autorizzano a portare il gioco fino al limite di rottura.

Pretendo che sia Sara a decidere per se stessa, liberamente, ma legando tutti noi alla sua decisione. Nessuno di loro sa o intuisce che a me piacerebbe restare sulle dune. Evidente lo sconcerto, altrettanto evidente la mia determinazione ad avere una risposta che intuivo già da prima quella che  sarebbe stata, ma nella forma da me dettata. Sara è così obbligata a scegliere secondo la sua convenienza e confido che riesca a cogliere il senso della mia provocazione. E’ così che tormentandosi e schernendosi si pronuncia per un ritorno a Tenadì.

Il padre accetta il verdetto per rispetto a me ma tende a puntualizzare che è la prima volta che Sara “decide” una cosa ma che è anche l’ultima. Capisco che la legge della tradizione è veramente ancora assoluta, sciolta cioè, da ogni apposizione culturale successiva alla sua codificazione antica.

La sera e la notte, per la cronaca, si conclude con il nostro pernottamento sulle dune, sotto il cielo stellato più bello mai visto e anche questo è nella natura delle cose. El Moctar non è soggetto da far decidere gli altri, incluso lo straniero venuto da lontano, cui può anche voler bene “come un amico” ma che non capisce assolutamente nulla dei costumi e delle convenienze locali.

Durante la cena mi rivolge ancora la domanda: “Restons icì ?” restiamo? Capisco che non posso andare oltre e dopo le tradizionali schermaglie dico che mi piacerebbe restare qui la notte. E’ quello che vuole sentirsi dire e che aveva deciso da sempre di fare.

Al nostro arrivo aveva fatto già uccidere il “montone più grasso” e aveva predisposto il banchetto tradizionale nomade.

I giovani nomadi si muovono agili e operosi nella notte alla luce della fiamma, bisbigliando il loro dialetto incomprensibile, scuoiando l’animale, svuotando le viscere e gettando i pezzi nel caldaio che bolle.

Sara mi ringrazia dicendomi che sono “très gentil” e io rispondo che lei è “très charmante”.

Seduti sulla stuoia grande, ospiti e patriarca siamo gli unici a parlare ad alta voce. Tra me ed El Moctar c’è un buon feeling, che si è andato rafforzando col passare delle ore e degli incontri. E’ un uomo profondamente religioso, per quello che significa essere religioso qui, nel deserto e nell’Islam. Profondamente osservante, ecco è forse questo il termine più proprio.

Le pratiche di pietà sono tutte osservate, la preghiera cinque volte al giorno e la carità e la misericordia verso il suo popolo, per il quale lui è il capo cui tutti portano il rispetto dovuto ad un capo, che li ricambia con la sua cura e la sua protezione.

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